Dobbiamo a B. d'Ausser Berrau un suggerimento prezioso: l'indemoniato citato da Luca (VIII, 30), da Marco (V, 9) e - in termini leggermente diversi - da Matteo (VIII, 32 ) è quello che la moderna psicologia definisce «schizofrenico».
Quest'individuo, infatti, lungi dall'essere in-dividuabile, è "scisso" (come vuole l'etimo ed omofono greco), ovvero - per dirla volgarmente - "schizzato", in più personalità che si esibiscono a turno.* La differenza tra costui ed un attore da palcoscenico non è nella quantità di personaggi interpretabili, che può mostrarsi quasi illimitata, ma nelle possibilità decisionali, l'attore potendo scegliere la "maschera" (persona, in latino) da indossare, lo schizofrenico no. Ciò detto, mentre l'attore può fingersi «buono» o «cattivo», anche se «specializzato» nel ruolo opposto a quello in cui si finge, lo schizofrenico è "schiavo" (captivus, in latino) degli strati più bassi della sua personalità; in altre parole, a scelta, schiavo a) delle sue personalità più basse o b) degli stati più bassi della sua personalità.
Riferendoci in quest'ultimo caso a quanto esposto da René Guénon ne Gli stati molteplici dell'essere, possiamo affermare che questi stati, presenti in ogni essere umano, sono null'altro che satanici. Infatti «cattivo», com'è noto, è l'abbreviazione di captivus diaboli. Inoltre l'indemoniato di cui sopra non è posseduto dal [singolo] diavolo, ma da una moltitudine - "legione", nella Vulgata (quia intraverunt daemonia multa in eum) - di diavoli, che poi trovano più idonea ospitalità in un branco di porci.

* Non è certo casuale, al riguardo, il vero significato dell'attributo «fesso» ("fenduto", "diviso"), comunemente indirizzato al gonzo, allo scemo e insomma al minus habens. Di rado ci balena il sospetto che proprio l'apparente plus habens sia il fesso.

La coscienza di tale pluralità, infernale e pertanto inferiore sia alla mediocrità [del Purgatorio] che all'eccellenza paradisiaca, rappresenta una valida alternativa alla diagnosi di schizofrenia. Tra l'altro, ne è anche l'unica terapia. Al riguardo, la solida sapienza contadina amava dire che "la testa è sempre una; i piedi, da due a mille", con ciò sottintendendo la bontà di avere un solo capo, la sventura di trovarsi con «troppi galli a cantare ['ché non si fa mai giorno]» e insomma la necessità di imporsi una monarchia interiore.



Da quanto sopra discendono due considerazioni d'un certo rilievo, almeno per chi scrive. La prima è la seguente. Se dare ascolto al «diavoletto» del catechismo di ieri equivale a far di sé uno schizoide, ovvero un indemoniato, l'inferno è anche qui ed ora. Ergo, all'inferno ci si può andare pure da vivi. Ergo, la «bella vita» non consegue necessariamente ai proprii «porci comodi». Ergo, per toccare un tema tipicamente buddista, ad ogni piacere corrisponde sempre un dolore.* La seconda segue a sua volta. I tempi in cui viviamo non aiutano molto, lungo la salita che va dalla molteplicità della base all'unità del vertice [del triangolo gerarchico], sia singolarmente che collettivamente. Questa è una buona attenuante, per noi moderni, vale a dire per noi schizofrenici, ma non servirà a scagionarci del tutto, perché - tornando alla solida sapienza contadina - "chi va con lo zoppo, impara a zoppicare" (that is "sumuntur a conversantibus mores", c'est à dire "if you sleep with dogs you will wake up with fleas").

* E - ripetiamo - non solo nel senso cristiano del piacere terreno e del corrispondente dolore ultraterreno, ma nel senso più «terra-terra» del piacere come causa e del dolore come effetto [immediato].