Ogni cosa creata, giunta alla massima espansione, comincia a rattrappirsi. Ogni cosa terrestre ha il suo perigeo, giunta al cui apice (o apogeo), innesta la retromarcia, fino all'ipogeo. E viceversa, come è naturale.



Ce lo scordiamo sempre. Parlare di sviluppo illimitato, di crescita continua, di arricchimento costante e via via farneticando, non ha senso. Cesare fino alla Britannia, Alessandro fino all'India,* Tamerlano fino alla Turchia, Napoleone ...
E poi?


I due virgoloni del Tao, nell'area di massima espansione si ingravidano del reciproco, opposto, nascituro. Perciò Mao amava dire che «la sconfitta è pregna della vittoria». Perciò - e non è che uno degli innumerevoli esempii - il comunismo tanto esecrato dalla Chiesa si è oggi trasferito in occidente, mentre la Russia è diventata (ovvero, il che è lo stesso, è tornata ad essere) Santa Матушка Россия.


* Forse è ingiusto accostare Alessandro Magno a chi non è passato alla storia con un simile attributo. Di 'grandi' non abbiamo che lui, Carlo di Francia, Akbar d'India e Ciro di Persia, il «bicorno» a cui probabilmente si riferisce la diciottesima sura del Corano e che viene citato anche nella Bibbia (Daniele, passim). Di queste figure autenticamente 'imperiali' - nel senso evoliano per cui «l'imperialismo impone, l'Impero compone» - abbiamo parlato pure qui, evidenziandone sia l'ambizione smodata che la fede e la dignità [del pagare in prima persona]. E, visto che s'è accennato alla Russia, che dire di Attila? Trattando del simbolismo del gladius Dei, Claudio Mutti annota quanto segue. «È proprio a questa dimensione divina del potere di Attila, depositario della spada di Dio, che si riferisce [...] l’episodio rievocato da Giovanni di Salisbury nel suo Policraticus: quando il Re degli unni bussò alle porte della città presentandosi come "Flagellum Dei", il vescovo Lupo lo invitò ad entrare chiamandolo "Servus Dei" e salutandolo con la formula "Benedictus qui venit in nomine Domini". Il santo vescovo, spiega Ernst Kantorowicz (ne I due corpi del Re, Einaudi, Torino 1989, p. 50), "aveva venerato, persino in Attila, la divina Maestà"; in altre parole, aveva riconosciuto nella regalità di Attila quella potestas che, secondo il dettato paolino, non proviene se non da Dio; e nella potenza degli unni aveva visto una vera e propria cratofania divina. D’altra parte, quale altro saluto poteva convenire meglio al re di un popolo che, durante la sua permanenza in Asia, aveva applicato ai propri sovrani il titolo cinese di "Figlio del Cielo"?».